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L’evoluzione del mondo del lavoro: Nomadismo digitale, Work Creep e Quiet Quitting come sfide per le aziende

Il lockdown è ormai un amaro ricordo, ma quei mesi di reclusione e tutto ciò che ne è scaturito ha cambiato per sempre le vite degli individui, in particolare di molti lavoratori che, grazie allo smart working e a tutte le sfumature del cosiddetto lavoro ibrido, hanno scoperto nuove dimensioni e modi di lavorare, oltre che rivedere le proprie priorità e modi di approcciarsi al lavoro in sé. È in quest’ottica che nascono fenomeni come il Nomadismo digitale, il Work Creep e il Quiet Quitting, tre nuove tendenze che sembrano però destinate a mettere radici ben salde.


1. Nomadismo digitale

Il primo di questi tre fenomeni, il Nomadismo digitale, sebbene sia emerso recentemente ha in realtà radici profonde: infatti, si è iniziato a parlare di nomadi digitali già nel 1997 grazie allo studio dello scienziato informatico Dr. Tsugio Makimoto e dello scrittore David Manners intitolato proprio ‘Digital Nomad’. Esso porta in evidenza come la nascita di comunità di lavoratori remoti itineranti sia dovuta al naturale bisogno degli esseri umani di muoversi e allo sviluppo delle tecnologie digitale e, conseguentemente, come il nomade digitale sia

«il rappresentante di uno stile di vita futuro in cui chiunque ha accesso a tecnologie portatili è libero di muoversi e viaggiare portando con sé il proprio ufficio». 

Se si tratta di un termine e di un fenomeno nato alla fine degli anni Novanta, come mai se ne è iniziato a parlare frequentemente soltanto più di vent’anni dopo?

Il nomadismo digitale è stato per anni una corrente di pensiero e movimento rimasta in secondo piano, specialmente nella società occidentale capitalista che associa l’impiego d’ufficio alla chiusura in quattro mura per otto ore, enormemente distante da un concetto di lavoro che prende in considerazione l’idea di svolgere le stesse mansioni anche su una spiaggia soleggiata e le infradito.

Il lockdown, in tal senso, è stato un vero e proprio punto di rottura: mettendo un freno alla libera mobilità delle persone, gli individui hanno dovuto imparare a fare i conti con un mondo che chiedeva loro di portarsi il lavoro a casa in tutti i sensi, dando inizio a giornate fatte di ore interminabili di videoconferenze fatte in camicia con sotto i pantaloni del pigiama, oppure con jeans e sneakers ma seduti al tavolo di un co-working e dei completi sconosciuti a sostituire i colleghi di tutti i giorni.

La Pandemia ha mutato le abitudini e gli stili di vita delle persone, dando loro modo di calibrare nuovamente anche i propri equilibri vita-lavoro, conferendo un’importanza inedita allo spazio riservato al proprio tempo libero e, per certi versi, generando insofferenza verso quelle quattro mura che, eliminate le restrizioni, richiamavano i professionisti a sé.

È qui che il Nomadismo Digitale ha conosciuto una vera e propria esplosione: dopo aver sperimentato lo smart-working e il lavoro ibrido, i lavoratori hanno capito di avere l’occasione di ripensare la propria carriera e, di conseguenza, il modo stesso di lavorare. Le priorità sono diventate la prevenzione della propria salute mentale e del proprio benessere, la felicità lo stimolo più importante e fondamentale per essere produttivi da accompagnare a una vita on the road.

Ma chi sono i Nomadi Digitali? 🤔

Uno studio di Passport-Photo.Online afferma che il perfetto ritratto del Nomade Digitale è quello di un Millennial, ovvero un nato tra il 1981 e il 1995, in possesso di laurea triennale o equivalente, sposato, abituato a viaggiare sia da solo che in compagnia.

Lavoratore full-time soddisfatto o molto soddisfatto principalmente del settore IT o creativo, il nomade digitale è un individuo che non può fare a meno della tecnologia, elemento chiave del suo successo competitivo e dei suoi guadagni.


2. Work Creep

Se i nomadi digitali sono individui particolarmente felici del proprio lavoro e del proprio modo di costruirsi una carriera in giro per il mondo, il Work Creep è una condizione che, seppur derivata da una scelta spontanea del lavoratore, a lungo andare genera malessere, esattamente il contrario della felicità e della spensieratezza che accompagnano il nomadismo digitale.

Si tratta di un fenomeno anch’esso già esistente e rimasto silente fino al post-pandemia, la cui traduzione è ‘lavoro strisciante’, ovvero la tendenza del dipendente a rendersi eccessivamente disponibile verso il proprio datore di lavoro, caricandosi di mansioni, oneri e responsabilità in misura sempre maggiore, lavorando fino a tardi o nei weekend.

L’individuo che cade nel vortice del Work Creep sceglie volontariamente di lavorare più del dovuto e oltre l’orario di lavoro, senza però che in cambio vi siano un aumento di stipendio, il pagamento di straordinari o un altro tipo di benefit e incentivi economici.

Apparentemente vantaggioso per il datore di lavoro, il fenomeno del lavoro strisciante nasconde in realtà diverse insidie. Spesso frutto di una retorica del lavoro che porta i dipendenti a mettere avanti gli interessi dell’organizzazione rispetto al proprio benessere psico-fisico, oltre che di culture aziendali che non sempre riescono o si impegnano a creare un allineamento tra obiettivi organizzativi e personali dell’individuo, il Work Creep è un rischio per la salute dei lavoratori, ponendoli sotto una condizione di stress, tensione e sovraffaticamento.

Un dipendente stanco non è produttivo, mettendo ulteriormente in pericolo l’efficienza dei processi aziendali a cui prende parte e, sul lungo termine, l’efficacia delle attività dell’azienda.

Un datore di lavoro, al fine di mantenere alti i livelli di produttività e rendere i processi più snelli, dovrebbe far sì che fenomeni come il Work Creep non si verifichino, comprendendo che un dipendente così proattivo è certamente un bene, ma non se trasforma il proprio lavoro in una dipendenza che si insinua nella sua vita privata inficiando, inevitabilmente, sulla sua salute a lungo termine.



3. Quiet Quitting

L’altra faccia della medaglia rispetto al Work Creep è costituita dal Quiet Quitting, il suo esatto opposto.

Le nuove consapevolezze del post-pandemia hanno fatto sì che i dipendenti comprendessero l’importanza del work-life balance, innescando in essi un senso di insoddisfazione che, rispetto al Work Creep, non incentiva a fare di più nonostante la mancanza di aumenti salariali e gratificazioni di ogni genere, ma a fare sempre meno separando nettamente la propria individualità dalla sfera lavorativa.

Secondo una ricerca condotta da TherapyChat in collaborazione con Ipsos, il 46% dei lavoratori, infatti, ha compreso l’influenza che la propria condizione lavorativa ha avuto sul benessere psicologico, sviluppando un desiderio parallelo di discostarsi e ridefinire le proprie priorità in merito a tempo libero e socialità.

Tuttavia, il Quiet Quitting sembrerebbe essere collegato anche al malcontento dei dipendenti legato al contesto aziendale in cui si inseriscono, ponendosi quindi come conseguenza di situazioni che hanno generato in essi un senso di insoddisfazione e mancanza di stimoli.

Difatti, il fenomeno viene anche definito ‘dimissioni silenziose’, indicando proprio la rinuncia del dipendente ad impegnarsi al massimo sul lavoro, separando la propria individualità dalle sue mansioni quotidiane, scegliendo consapevolmente di fare il minimo.


4. Punti in comune

Nomadismo digitale, Work Creep e Quiet Quitting sono tre tendenze e fenomeni che hanno acquisito un’importanza sempre più rilevante negli ultimi anni proprio grazie ai cambiamenti apportati al mondo del lavoro e alla società in sé dalla Pandemia. 

Si tratta di tre sfaccettature che hanno sia pro che contro, ma con punti in comune ben delineati: in tutti e tre i casi, infatti, si evince come alla base vi sia la necessità di un cambiamento nelle culture organizzative che investano maggiormente sul capitale umano e che comprendano appieno l’importanza di mantenere alti i livelli di soddisfazione dei dipendenti e, prima ancora, il loro benessere psico-fisico.

Sebbene si abbia a che fare con fenomeni che non accennano ad arrestarsi, le aziende devono prendere atto della necessità di ridefinire il proprio approccio ai talenti, adottandone uno people-centric che prenda in considerazione le reali necessità della persona e che sia il più possibile data-driven.

Attraverso i dati e l’ascolto delle esigenze dei dipendenti, sarà possibile non solo migliorarne i livelli di soddisfazione, ma anche stimolare azioni di Employee Advocacy che accompagnano una strategia di Employer Branding volta a dimostrare ai potenziali talenti come il capitale umano viene valorizzato e come sia possibile scegliere strade alternative a quelle fin qui illustrate.

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